Indycar – C’era una svolta

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Qualcosa è cambiato. As Good as It Gets, se vogliamo citare il titolo originale del film uscito nel 1997 che ruota attorno all’ambigua figura di Melvin Udall (Jack Nicholson), uno scrittore di romanzi rosa che decide di mettere in discussione tutte le sue convinzioni al fine di migliorarsi come persona.
E tra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008 qualcosa è cambiato anche nel mondo delle corse automobilistiche americane. Qualcosa che, per coloro che hanno avuto il privilegio di conoscere la compianta Formula Cart, rappresenta una vera e propria rivoluzione, o per i più modesti (!) quantomeno un cambiamento di rotta netto e deciso. Non un taglio nei confronti del passato, piuttosto la continuazione di un qualcosa che era stato bruscamente interrotto e si pensava fosse ormai andato perduto per sempre.

La storia dell’automobilismo a stelle e strisce ha inizio nel 1909 quando l’American Automobile Association dà vita al primo Campionato. Nel 1956 lo United States Automobile Club, meglio noto come USAC, acquisisce il Campionato che amministrerà fino al 1978. Nel 1979 viene infatti organizzato il primo Campionato di Formula Indy. I team impegnati in Formula Usac decidono di passare alla Formula Indy sancendo così un nuovo grande inizio nel mondo delle gare per monoposto americane. Per una decina d’anni in Formula Indy dominano i piloti statunitensi, da Rick Mears a Johnny Rutherford, da Al Unser a Mario Andretti senza dimenticare Bobby Rahal e Danny Sullivan. Nel 1989 Emerson Fittipaldi, già due volte iridato in Formula Uno, si laurea campione della serie dando involontariamente il via ad una graduale quanto determinante inversione di tendenza. I piloti europei si accorgono finalmente che non esiste soltanto la Formula Uno ma che bensì la Formula Indy può costituire una ottima alternativa al sempre più elitario mondo del Circus iridato. Accade così che il campionissimo Ayrton Senna, in crisi con la McLaren, sul finire del 1992 sale su una Penske di Formula Indy intenzionato, pare, ad abbandonare la Formula Uno nel 1993 in caso di mancate rassicurazioni da parte di Ron Dennis. L’accordo Senna-Penske non si concretizzerà mai, l’idolo brasiliano continuerà per un’altra stagione alla McLaren prima di chiudere forzosamente la sua carriera alla Williams in quel di Imola nel disgraziatissimo 1994. Il test di Ayrton sul circuito di Firebird, in Arizona, destò comunque ulteriore curiosità… il re indiscusso della Formula Uno al volante di una pur bellissima monoposto biancorossa non McLaren complice la pazza idea, poi accantonata visto il rinnovo del contratto con il team di Dennis, di disputare la 500 Miglia di Indianapolis! Nel 1993 la Formula Indy si arricchisce comunque della presenza del Leone Nigel Mansell, campione in carica con la Williams F.1 nel 1992, deciso a vivere una seconda giovinezza agonistica Oltreoceano. Così è, il coriaceo britannico vince il titolo al primo tentativo dimostrando di sapersela cavare egregiamente anche sui numerosi circuiti ovali strappacuore ostici a molti ex piloti di Formula Uno. E proprio grazie a Mansell, subito vittorioso alla guida delle più pesanti monoposto americane, dall’Europa comincia la caccia al sedile per correre in Formula Indy. Mario Andretti, Emerson Fittipaldi, Nelson Piquet avevano tracciato la strada, il baffuto Nigel riesce con le sue sbalorditive imprese a renderla transitabile. Nel 1995, anno mirabilis della Formula Indy, un certo Jacques Villeneuve, figlio del mai dimenticato Gilles, non si accontenta di vincere la 500 Miglia di Indianapolis ma già che c’è conquista pure il titolo. Il canadese se la deve vedere con un parterre de roi: gli Andretti, i Fittipaldi, gli Unser, oltre ad altri validissimi specialisti della categoria che mi pare persino superfluo star lì a menzionare. Di lì a poco nasce però la Indy Racing League, Irl per gli amici, pochi in verità quando questa nuova serie disputa il suo primo Campionato nel 1996. La Irl, gestita dall’ambizioso uomo d’affari Tony George, riesce già per il 1996 a strappare la 500 Miglia di Indianapolis, vera e propria icona nel panorama delle gare automobilistiche americane, alla rivale Formula Indy che si trova improvvisamente costretta ad utilizzare il nome Formula Cart. Amen, la Cart perde la Indy 500 ma si tiene i contratti per correre sui circuiti più affascinanti del Nord America, in più si toglie la soddisfazione di vendere i vecchi telai ormai dismessi alla Indy Racing League di Tony George. Intanto nel 1996 irrompe nella Cart l’italianissimo Alessandro Zanardi che conquista rapidamente il cuore dei tifosi americani. Negli Usa persiste la cultura delle gare-spettacolo dove anche chi parte ultimo ha qualche possibilità di tagliare il traguardo per primo, Zanardi sotto questo punto di vista è il pilota che non si arrende mai, l’uomo che ci voleva e del quale gli americani non possono non innamorarsi. Quando Alessandro abbandona gli Stati Uniti per fare ritorno in Formula Uno con due titoli Cart consecutivi in saccoccia, Tony George e la Irl non rappresentano ancora una minaccia. Nella Formula Cart continuano ad arrivare forze fresche, su tutti Juan Pablo Montoya che sbancherà le gare per monoposto americane nel biennio 1999-2000. Nel 2001 le cose cominciano a mettersi male per la Cart, la decisione di quotarsi in Borsa contribuisce pesantemente a favorire una situazione di non ritorno. Neanche un paio d’anni e lo scenario muta drasticamente: nel 2003 si assiste ad una vera e propria fuga delle squadre e dei piloti top fino ad allora impegnati nella Cart che si affrettano uno dopo l’altro a passare nella serie di Tony George. Un po’ quello che successe tra il 1978 e il 1979 quando la Formula Usac fu costretta a chiudere i battenti. Il fatto è che la guerra intestina tra Cart e Irl non giova certo al mondo delle gare per monoposto americane. La Irl assume ben presto il nome di IndyCar Series come ad evidenziare il suo esclusivo possesso della gara più importante della stagione, la Indy 500, mentre la Cart diventa ChampCar World Series e prova ad uscire dalla crisi andando a correre qualche gara in Europa. Tutto inutile, tra il 2006 e il 2007 si arriva ad un momento di stallo in cui sia ChampCar che IndyCar Series non interessano quasi più a nessuno: della disputa suicida ha infatti approfittato la Nascar, categoria per “mostri” a ruote coperte che in tempi recenti ha accolto Montoya seducendo anche Villeneuve. Sul finire del 2007 si muove qualcosa, la ChampCar è ormai alle corde, annuncia le gare in calendario per il 2008 ma non ha i capitali necessari per poter continuare. E’ a questo punto che Tony George fa un’offerta che la ChampCar non può rifiutare, rileva baracca e burattini, in men che non si dica la ChampCar non esiste più e per il 2008 viene annunciata una sola categoria top per monoposto negli Stati Uniti.

E’ terminata un’epoca, ne è iniziata una nuova. Qualcosa è cambiato, dicevo, anche se la strada da percorrere per ricomporre tutti i pezzi e fare dell’IndyCar attuale la Formula Cart del periodo magico 1993-1998 è lunga, molto lunga. Deve essere incrementato il numero di team al via, ancor di più il livello dei piloti, indispensabili per fare della IndyCar Series una serie appetibile agli occhi del mondo. Dixon, Kanaan, Wheldon sono indubbiamente ottimi drivers, mancano però quei campioni che una decina d’anni fa affollavano le griglie di partenza delle gare di Formula Cart. Qualcosa è cambiato, non soltanto perché d’ora in poi non avremo più due categorie troppo simili per impostazione a pestarsi i piedi a vicenda, bensì anche perché come rafforzativo di un momento nuovo la IndyCar Series ha avuto tre donne allo start dell’ultima 500 Miglia di Indianapolis, segnatamente Milka Duno, Sarah Fisher e Danica Patrick. Di queste tre donne pilota l’ammiratissima Danica, obiettivo numero uno dei fotografi che forse non inspiegabilmente (!) sembrano favorirla nelle inquadrature rispetto ai più titolati colleghi uomini, è riuscita sull’ovale giapponese di Motegi in una impresa che non ha precedenti: vincere una corsa. Prima di lei mai il gentil sesso aveva conquistato un traguardo così ambizioso in una gara per monoposto di livello internazionale. Non che mancassero le donne pilota, questo no, certamente ce n’erano di meno e probabilmente le poche che c’erano non possedevano quella giusta dose di talento necessario a correre per le prime posizioni. Ricordo il periodo di Lyn St. James, mi riferisco alla metà degli anni Novanta, una volenterosa donna pilota che spesso e volentieri si qualificava per la 500 Miglia di Indianapolis ma che poi in gara spariva, risucchiata dal gruppone. La Patrick, ma anche Sarah Fisher, hanno invece dimostrato quantomeno di saper stare nel gruppo di testa ma devono comunque ringraziare la St. James per aver in qualche modo tracciato loro la strada. Danica ha così potuto spezzare l’incantesimo ricordando al mondo intero che per ogni cosa c’è sempre una prima volta. Chissà, forse un domani anche nella Indy 500 oppure in Formula Uno…

Ermanno Frassoni

www.frassoni.com/angolo.htm

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