Il “Gronchi rosso”

scarfiotti-monza-1966-500x365 Il "Gronchi rosso"

Domenica pomeriggio sarà il giorno di Giancarlo Fisichella, l’occasione che lui aspetta da una vita, che ogni pilota italiano sogna un giorno di poter avere.
A Monza, nel Gran premio d’Italia, sarà al volante di una Ferrari.
Per la prima volta, dopo tredici anni di Formula 1, duecentoventisei Gran Premi, a trentasei anni d’età.
Un pilota italiano su una macchina italiana, sembrerebbe qualcosa di naturale, invece trattandosi della Ferrari è un’eccezione.

Una rarità, il “Gronchi rosa”, anzi rosso.

Sono infatti stati pochi gli italiani ad aver coronato questo sogno, intere generazioni di piloti ne sono state escluse senza appello.
Enzo Ferrari decise così quand’era già anziano, ma era ancora il Drake e quello che decideva non si discuteva mai: “Meglio i piloti stranieri” – tuonò – “danno meno problemi”.
I “problemi” che Ferrari temeva erano le reazioni dell’opinione pubblica  in caso di un incidente fatale.

Troppe volte era accaduto e lui non voleva accadesse mai più.

All’inizio i piloti italiani del cavallino erano stati la maggioranza: Gigi Villoresi, Nino Farina, Alberto Ascari i più famosi della loro generazione avevano guidato per lui.
Ascari, soprattutto, un fenomeno, forse il miglior pilota italiano di sempre, un autentico asso che si meritò l’ammirato rispetto di Fangio:-“Alla partenza lo guardo sempre negli occhi e spesso capisco che dovrò arrivare secondo….”-
Ascari vinse due mondiali, gli ultimi di un pilota italiano, prima di un divorzio clamoroso che lo aveva portato alla Lancia e di una morte assurda in camicia e cravatta alla curva di Monza che ora porta il suo nome.

Da quel giorno di maggio del ’55 l’Italia cominciò ad aspettare il suo erede e lo stesso, per un po’, fece la Ferrari.

Non ebbero fortuna due giovani leoni: il lodigiano Castellotti e il romano Musso.
Castellotti era irruento, focoso, un pilota tutto ardimento, che non calcolava mai e che per questo era amatissimo dal pubblico.
Musso, invece, era uno stilista perfetto, in questo assomigliava a Fangio ed era considerato da Enzo Ferrari l’erede di Felice Nazzaro, il grande pilota degli anni ruggenti.
Morirono entrambi all’inizio di carriere che promettevano di essere folgoranti, brillantissime e a Maranello si diradarono i piloti nostrani.
Dopo Ascari nessuno aveva più vinto un Gran Premio iridato fino al luglio del 1961 quando ci sarebbe riuscito, addirittura all’esordio assoluto, impresa mai più eguagliata, un milanese allora ventisettenne, Giancarlo Baghetti che trionfò a Reims, nel Gran Premio di Francia, sulla pista nella quale tre anni prima si era ammazzato Musso.

Baghetti, però, nonostante il folgorante inizio, non sarebbe mai diventato il nuovo Ascari; si perse, non completandosi mai, rimanendo un’eterna promessa.
Dopo di lui fu la volta del suo complementare: Lorenzo Bandini.

Ricco e con le giuste conoscenze Baghetti, di modesta condizione e senza appoggi  Bandini.

All’inizio furono fierissimi rivali dividendo la stampa e i tifosi,  poi Bandini si era dimostrato più determinato,  più continuo fino a proporsi come candidato al titolo mondiale.

Il suo sogno finì in un rogo, sulla baia di Montecarlo nel maggio 1967.

Per  tragica ironia della sorte, fra i pochi coraggiosi soccorritori che tentarono di estrarlo dalle fiamme che avvolgevano la sua Ferrari, l’amico-nemico-rivale Baghetti.
Qui il Commendatore disse basta; dopo Lorenzo Bandini, la cui tragica fine in un’epoca ormai televisiva ebbe una vasta eco, gli italiani furono definitivamente messi al bando.
Ignazio Giunti, forse il pilota italiano più dotato della generazione immediatamente successiva, fece solo qualche sporadica apparizione prima di un’assurda fine causata dalla negligenza dei commissari e di un collega reo di un comportamento irresponsabile.
Andrea De Adamich non ebbe maggior considerazione, e qualche occasione in più venne concessa al comasco Arturo Merzario, ma in un periodo fra i più grigi attraversati dal cavallino.

Poi, dopo l’era di Lauda e quella di Villeneuve, con il Grande Vecchio prossimo alla bandiera a scacchi di un’esistenza irripetibile, fu la volta di Michele Alboreto, un pilota che avrebbe meritato il titolo mondiale e di essere incoronato, finalmente, l’erede del grande Ascari.Dopo tanti anni Michele è  il primo italiano a vincere un Gran Premio col cavallino, non solo, ma vola anche in testa alla classifica del campionato.
Sfortuna, scelte discutibili della Direzione Tecnica, mancanza di affidabilità della sua Ferrari  ed un grande avversario, Alain Prost, gli impedirono la conquista del titolo in quel lontano 1985.

-“A Michele siamo debitori di un titolo mondiale”- furono le parole di Enzo Ferrari, in una delle sue ultime interviste, forse era invecchiato ma una frase simile non l’aveva mai detta per nessuno.

Dopo Alboreto arrivò la delusione di Ivan Capelli, le apparizioni mordi e fuggi di qualche collaudatore: Larini, Morbidelli e, negli ultimi due gran Premi, Badoer.

Briciole, ed ora Fisichella.

Facciamo un passo indietro.
Poco prima della scomparsa di Bandini aveva avuto la sua occasione un giovane di origini marchigiane, la famiglia era di Recanati, trapiantato nell’operosa Torino: Ludovico Scarfiotti, nipote di uno dei fondatori della Fiat, imparentato in qualche modo con la famiglia Agnelli..
Nel 1966, dopo essersi messo in mostra nelle corse di durata e in quelle di montagna, gli fu affidata una monoposto nel Gran Premio d’Italia e lui lo vinse da dominatore.

Ancora oggi, dopo quarantatré anni resta l’ultimo italiano ad esserci riuscito al volante di una “rossa”.

In bocca al lupo.

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