Dio perdona… papà no!

rosberg.thumbnail  Dio perdona... papà no!

E’ indubbio che per costruire una storia sono indispensabili dei personaggi. Ma non dei personaggi qualsiasi, dei personaggi con la P maiuscola. Immancabilmente, quando dei grandi personaggi escono di scena il pubblico tende ad abbandonarsi alla nostalgia. Niente di strano insomma, l’uomo vive da sempre di emozioni e non ci trovo niente di male nell’esprimere un certo dispiacere constatando che quei personaggi rivelatisi in grado di impressionarci favorevolmente hanno deciso, magari per seguire nuove strade o più semplicemente per motivi legati all’anagrafica, di lasciare una volta per tutte quel ruolo con il quale si erano fatti particolarmente apprezzare.
La Formula Uno, o per meglio dire il mondo delle corse automobilistiche nel suo complesso, non sfugge a questa regola.

Quanti, tra coloro che ancora oggi seguono i Gran Premi di Formula Uno, trepidano ripensando alla determinazione e all’aggressività agonistica di Keke Rosberg, campione del mondo nel 1982, o all’ironia e alla spietatezza di Nelson Piquet, tre volte iridato nei favolosi anni Ottanta? Forse non saranno molti gli appassionati a ricordare la figura di Satoru Nakajima, pilota del Sol Levante protetto della Honda che tra il 1987 e il 1991 corse per Lotus e Tyrrell condividendo per una stagione (era il 1987) il box con il formidabile Ayrton Senna. Keke Rosberg, passaporto finlandese ma nativo di Stoccolma, si è ritirato dalla Formula Uno alla fine del 1986 dopo una non memorabile stagione vissuta alla McLaren, Nelson Piquet e Satoru Nakajima hanno detto basta nel 1991, il brasiliano dopo aver perso il confronto diretto con il connazionale Senna, il giapponese al termine di un percorso decisamente più breve e avaro di risultati.

Nel 2008 ritroviamo però i nomi di Rosberg, Nakajima e Piquet su Williams e Renault. Sì, perché Nico, Kazuki e Nelson Angelo, legittimi eredi di Keke Rosberg, Satoru Nakajima e Nelson Piquet, hanno scelto di seguire le orme dei loro illustri padri fino ad approdare nell’ambitissimo Circus della Formula Uno. In Williams si è puntato su due figli d’arte, Nico Rosberg e Kazuki Nakajima, entrambi giovanissimi, entrambi affamati di gloria come lo erano i loro genitori. In Renault al due volte campione del mondo Fernando Alonso, tornato all’ovile dopo una stagione da nervi a fior di pelle alla McLaren, è stato affiancato Nelson Angelo Piquet, già tester della scuderia diretta da Flavio Briatore. Mi sembra superfluo specificare che il fatto di essere “figlio di…” non significa necessariamente possedere il medesimo Dna corsaiolo del genitore. D’altra parte se andiamo a guardare con attenzione sono più i figli di piloti famosi che hanno optato per altri tipi di carriere rispetto a quelli che si sono gettati nella mischia con casco e tuta ignifuga esponendosi peraltro a rischi di sonore stroncature. Cambiamo sport e pensiamo un momento al pugilato: Mike Tyson esordì tra i professionisti senza portarsi sulle spalle il fardello di una medaglia vinta alle Olimpiadi, Henry Tillman conquistò l’Oro nei pesi massimi ai Giochi del 1984 risultando poi incapace di esprimersi ad alti livelli una volta passato al professionismo (fu tra l’altro battuto per kappaò al primo round proprio da Tyson nel 1990). Questo dimostra che la pressione è forse la minaccia più incombente e pericolosa per un atleta, quando il mondo si aspetta miracoli da te è facile perdere il controllo e scivolare sulla fatidica buccia di banana. Un figlio d’arte che vuole seguire le orme del genitore famoso deve imparare a convivere con la pressione, è scontato dire che soprattutto nei primi tempi lo scomodo paragone costituirà il suo pane quotidiano nelle interviste a giornali e televisioni. Ma ci sono anche dei lati positivi: il figlio d’arte può appoggiarsi all’esperienza del genitore che saprà suggerirgli senza tentennamenti qual è la strada giusta da seguire per raggiungere più rapidamente l’obiettivo. Nico Rosberg, Nelson Angelo Piquet e Kazuki Nakajima hanno potuto contare sul supporto paterno arrivando esattamente dove volevano essere, vale a dire in Formula Uno, nella categoria considerata il top del motorsport, là dove gli sponsor più importanti sgomitano per arrivare contribuendo a far girare nell’ambiente un bel po’ di dollari. Keke in particolare ha assecondato le ambizioni del figlio pianificando passo dopo passo la sua carriera, tutto ciò senza mai risultare una presenza ingombrante nei paddock. Nelson Piquet ha addirittura messo in piedi un team per far muovere i primi passi all’erede nella Formula Tre sudamericana. Satoru Nakajima, proprietario di un team in Formula Nippon, si è invece proposto in modo più discreto nei riguardi della carriera del figlio Kazuki, peraltro approdato giovanissimo nelle categorie addestrative europee.

Ma non è sufficiente essere riusciti ad arrivare in Formula Uno, cosa peraltro al giorno d’oggi non facile dal momento che sono scesi a venti i sedili disponibili, per poter dire di avercela fatta. Figli d’arte o no, il Circus ci mette davvero poco a fagocitare i pulcini appena approdati sulla scena. E non mostra comprensione nemmeno per quei piloti ormai considerati veterani, vedi Juan Pablo Montoya e Ralf Schumacher, che pure qualcosa di buono nella loro carriera l’avevano combinato. Lo stesso Jarno Trulli, sebbene blindato da un contratto con Toyota, si vociferava dovesse lasciar posto a Fernando Alonso nel caso in cui il campione spagnolo avesse optato per la squadra nippo-tedesca nel 2008. Fortuna per l’abruzzese che Matador ha preferito recuperare i rapporti con Renault piuttosto che ricominciare da zero con Toyota. Ciò ovviamente a discapito di Fisichella e Kovalainen che si sono ritrovati sul mercato in quanto a Nelson Angelo Piquet era stato promesso un 2008 da titolare in Renault. Ad Heikki, ingaggiato dalla McLaren, è andata pure bene, un po’ meno al Fisico che si è dovuto accomodare in Force India. Evidenzio però che se in McLaren avessero deciso di affiancare Nico Rosberg a Lewis Hamilton, e questa inizialmente pareva la via più logica, il buon Kovalainen sarebbe probabilmente rimasto a piedi dopo appena una stagione da titolare trascorsa in Renault. Fatte queste precisazioni non vedo come Nigel Mansell, pilota-simbolo capace di entusiasmare le folle degli autodromi a dispetto del suo unico titolo mondiale vinto nel 1992, sarebbe potuto restare in Formula Uno per più di un paio di stagioni. E’ risaputo che i suoi inizi in Lotus furono tutto meno che da Leone, giusto per fare riferimento al soprannome successivamente attribuitogli per lo spettacolare approccio che l’inglese aveva ad ogni singola gara. Accadde invece che dopo un non breve periodo di maturazione Nigel raggiunse finalmente la Williams arrivando così a deliziare gli spettatori grazie anche ai duelli fratricidi con l’allora compagno di squadra Nelson Piquet (il padre di Nelson Angelo). Ecco, credo che quattro anni in Formula Uno spesi per acclimatarsi all’ambiente nessun team manager di oggi li spenderebbe dando fiducia ad un solo pilota come avvenne nel caso della Lotus primi anni Ottanta e dell’ancora acerbo Mansell. Sono cambiati i tempi, si sono quadruplicati gli interessi economici in ballo, forse sono cambiati anche i team manager.
Il punto è che oggi un pilota di Formula Uno a 25 anni deve essere già in grado di battersi per il titolo, se così non è ben difficilmente troverà una squadra top disposta ad ingaggiarlo tanto per fargli fare esperienza. Con Alonso ed Hamilton l’età media dei piloti di Formula Uno subito competitivi si è notevolmente abbassata, peccato però che non tutti i piloti si chiamino Fernando e Lewis… non è pertanto così scontato che un qualunque pilotino di 22 anni, anche se bravo e promettente, arrivi nel Circus e in un paio di stagioni sappia già conquistare la sua prima vittoria. In tal caso avremmo nidiate di nuovi Senna, Prost, Mansell, Schumacher (Michael e non Ralf!) ad ogni stagione. Non è escluso che il pilotino si riveli poi in grado di lasciare il segno, è però fondamentale analizzare quali sono i suoi “tempi di cottura” che devono essere necessariamente brevi come richiesto dagli standard della Formula Uno attuale. Insomma, buon per Mansell (e per noi che abbiamo potuto ammirarlo in pista) che non si è trovato nel Circus del dopo Duemila, se così fosse stato oggi forse non potremmo parlare delle sue memorabili imprese!

Tra i figli d’arte che hanno avuto successo in Formula Uno non posso evitare di citare Damon Hill e Jacques Villeneuve.
Il primo, figlio di quel Graham capace di vincere la 500 Miglia di Indianapolis, la 24 Ore di Le Mans e dulcis in fundo due mondiali di Formula Uno, ha avuto la fortuna ma anche l’abilità di legarsi al team di Frank Williams nel momento in cui Alain Prost, indiscusso capitano del team, stava già accarezzando l’idea della pensione. Nel 1994 Damon si ritrovò ad affiancare nientemeno che Ayrton Senna, acquisto di lusso per la Williams del dopo Mansell e del dopo Prost, come andò a finire purtroppo ce lo ricordiamo bene tutti. Patron Frank fu costretto a correre ai ripari rimpiazzando il compianto brasiliano con l’allora imberbe David Coulthard. L’attendista Damon Hill si guadagnò così i galloni di caposquadra. Perse due titoli mondiali consecutivi contro la Benetton di Michael Schumacher, quindi nel 1996 riuscì a conquistare l’alloro tanto inseguito avendo la meglio sul nuovo compagno di team, Jacques Villeneuve, guarda caso un altro figlio d’arte che si sarebbe a sua volta laureato campione nel 1997. Per il promettente Jacques, titolato alla seconda stagione in Formula Uno, sembrava dovessero arrivare ben altre soddisfazioni, invece facendo due calcoli vediamo come la sua carriera sia stata piuttosto simile a quella del meno blasonato Damon Hill. Il figlio di Graham ha penato non poco per imporsi ai vertici della Formula Uno, alla fine però gli va dato atto di esserci riuscito pur senza possedere le doti ascrivibili a gente come Senna, Prost, Mansell, giusto per citarne alcuni. Jacques Villeneuve ha avuto, a differenza di Damon, un frastornante esordio nel Circus, poi però ha compiuto scelte sbagliate fermandosi troppo tempo al Bar (pardon, alla Bar!) che di fatto ha messo la parola fine alle sue ambizioni da top driver.

Adesso siamo giunti alla generazione dei nuovi Rosberg, Piquet, Nakajima. E negli Stati Uniti le cosiddette famiglie da corsa si sprecano ancor più che in Europa. Mi sovvengono le generazioni degli Andretti, dei Fittipaldi, dei Foyt, degli Unser, tutta gente che dai tempi della Formula Usac fino all’odierna IndyCar ha saputo regalare intense emozioni al variegato pubblico di tifosi americani. Ad essere sincero mi spiace un po’ vedere uno Scheckter, Tomas, figlio di quel Jody campione del mondo di Formula Uno nel 1979 con la Ferrari, plafonato in IndyCar quando potrebbe tranquillamente competere ad alti livelli in Formula Uno. Destino ha voluto che una chance concreta per Tomas non si concretizzasse, cosicchè il rampollo di casa Scheckter è dovuto emigrare negli States in cerca di miglior fortuna. In America corrono anche Marco Andretti, addirittura figlio e nipote d’arte, e Graham Rahal, erede di quel Bobby che per un breve periodo corse anche in Formula Uno. Sempre al di là dell’Oceano ma spostandoci nelle corse per vetture a ruote coperte ricordiamo gli Earnhardt, i Petty, in buona sostanza personaggi che sono parte integrante della storia Nascar. In Europa non mancano i figli d’arte che si stanno affacciando alle competizioni anche se è decisamente prematuro parlare in questi casi di generazioni da corsa come per gli Andretti, i Foyt e via dicendo. Tra le promesse del futuro inserirei Adrien Tambay, figlio dell’ex ferrarista Patrick Tambay, magari Johnny Amadeus Cecotto, figlio di quel Johnny Cecotto che nel 1984 fu compagno di squadra di Ayrton Senna alla Toleman, ma è un nipote d’arte colui che mi preme seguire con attenzione. Mi riferisco a Bruno Senna Lalli, per tutti semplicemente Bruno Senna, figlio di Viviane, sorella di Ayrton, indi nipote dell’asso brasiliano. Bruno ha iniziato abbastanza tardi a pensare seriamente alle corse, fatto sta che attualmente milita in GP2 Series, categoria anticamera alla Formula Uno, e in un domani non troppo lontano potrebbe anche ambire ad un sedile nel Circus riportando così il nome del suo illustre zio nel mondo dei Gran Premi. Sì, ecco, credo possa essere positivo per le corse non rimuovere del tutto il proprio passato, non dimenticare i nomi di quei protagonisti capaci di scrivere la storia del motorsport, questo perché probabilmente i vari Nico, Nelson Angelo e Kazuki avranno caratteristiche diverse rispetto ai loro celebri parenti, ciononostante il solo fatto di leggere i loro cognomi nell’elenco dei partecipanti ad un Gran Premio è indice di continuità e, si spera, di nuove entusiasmanti bagarre in pista.

Quanto da me riportato non esclude in alcun modo l’esigenza di avere comunque volti e cognomi nuovi in Formula Uno sebbene su questo non sia nemmeno il caso di soffermarsi dal momento che personaggi copertina quali Alonso, Hamilton, Kovalainen, Kubica, Massa e Raikkonen non hanno certo famiglie ricche alle spalle. Il loro curriculum se lo sono costruiti da soli con pazienza e dedizione o se preferite con quel talento che in ogni epoca differenzierà il campione, sia esso un figlio d’arte o il più trascurato dei trovatelli, dal pilota medio capace di qualche exploit o ancora da chi non riuscirà mai a vincere una gara in vita sua. Evidentemente la cara vecchia teoria della selezione naturale di Charles Darwin secondo cui soltanto i più forti sono destinati ad emergere vale anche per coloro i quali hanno fatto dell’abitacolo di un’auto da corsa il loro ufficio personale!

Ermanno Frassoni

www.frassoni.com

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