L’Editoriale – I dubbi sulla sicurezza dopo le tragedie di Wheldon e Simoncelli

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a cura di Silvano Taormina

Prima Dan Wheldon, poi Marco Simoncelli. Quella appena conclusa è stata la settimana nera del motorsport, quella che ha portato via due grandi campioni, amati e stimati da parte di chi le corse le vive veramente, sia dal paddock di un autodromo come dalla poltrona di casa. A posteriori è sempre facile esprimere opinioni e commenti, spesso inappropriati e fuori luogo. Lasciarsi andare a frasi del tipo “era tutto prevedibile”.

Motorsport is dangerous. Lo sappiamo tutti, ma spesso lo dimentichiamo. Lo sanno i piloti, lo sanno gli addetti ai lavori, lo sanno gli organizzatori. I livelli di sicurezza raggiunti dalle vetture, i circuiti con vie di fuga sempre più larghe, l’elevato livello di professionalità dei piloti. Tutti elementi che suggeriscono una tendenza all’incolumità, quasi un senso di invincibilità, da parte di chi scende in pista. Ma non sempre è così. Anche con gli standard di sicurezza più elevati non si è mai esenti da eventuali danni. Nemmeno dalla morte.

Ribadiamo ancora una volta il concetto: “motorsport is dangerous”. Ma spesso si corre ai ripari solo quando ci scappa il morto. Quando ormai è troppo tardi. La morte di Simoncelli era quasi inevitabile dopo un impatto di quel tipo. Nel motociclismo è così. Pur con gli standard di sicurezza più elevati è quasi impossibile evitare incidenti di quel genere, drammatiche conseguenze incluse. Ma nelle corse automobilistiche cosa si può fare? Dove si può ancora intervenire? I casi aperti sono molti, e adesso ne proponiamo alcuni, ma spesso non si fa nulla per ovviare a certe problematiche.

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Indycar Series, ha ancora senso correre sugli ovali? Pochi giorni prima della maledetta domenica di Las Vegas c’era chi aveva previsto la tragedia. E così è stato. Fino a pochi anni fa l’Indycar si disputava solo su tracciati ovali. Dal 2005 ha iniziato a calcare anche gli stradali e i cittadini, ma la soglia di rischio non è diminuita. Tralasciando la 500 miglia di Indianapolis, che senso ha disputare altre gare su ovale? In un calendario di 16-17 gare ci può stare che 3-4 su disputino all’interno di simili catini, magari con lunghezze, pendenze e velocità medie di percorrenza diverse, giusto per avere un po’ di varietà. Ma non si deve andare oltre. Non si possono inserire due piste come Kentucky o Las Vegas nella parte finale della stagione, quando ci si gioca il titolo e gli animi si scaldano un po’ più del dovuto. Non si può imporre ai piloti, dopo l’ingresso della safety-car, di riprendere la gara come se ogni volta fosse una nuova partenza lanciata con le vetture schierate (Barber Motorsport docet). Non si può pensare di far gareggiare 34 vetture, molte delle quali affidate a gente senza la dovuta esperienza, in un tracciato così corto. Non si può mettere in palio un premio in denaro e costringere un pilota a partire dal fondo solo per far divertire gli spettatori. Non si può, neanche lontanamente, chiedere a gente che non calca gli ovali da anni o che addirittura non ha mai messo piede in pista, come i vari Zanardi, Pastrana, Gronholm o Villeneuve, di disputare una gara su una pista come quella del Nevada.

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Il “rettilineo curvo” di Imola. Altra questione spinosissima. Si attende solo il morto per intervenire. Come se il passato non insegnasse nulla. Una volta Imola aveva un lungo rettilineo che dalla Variante bassa portava direttamente alla Tosa. Poi una domenica di maggio è morto Airton Senna e così vennero inserite due varianti. Adesso la Variante bassa non c’è più, c’è un lungo rettilineo che dalla Rivazza porta al Tamburello. C’è anche una nuova struttura box che ha imposto uno strano disegno del rettilineo d’arrivo, simile al tratto iniziale di Macao. Lo hanno ribattezzato “dente di cane” e altro non è che una curva che si percorre ad alta velocità con due muretti ai lati. Lo scorso anno si è sfiorata la tragedia per due volte nello stesso giorno. AutoGp: pronti, via, crash. Vetture che decollano, piloti storditi ma fortunatamente nessun danno grave. Poche ore più tardi, stessa cosa nel GT Open. Al via l’Audi R8 di Marcel Tienman viene toccata da un avversario e finisce contro il muro in piena accelerazione. Il tedesco resta in coma per settimane e deve dire addio alle corse. Anno 2011, Porsche Carrera Cup Italia. Nel punto incriminato la vettura di Busnelli subisce una foratura e scarta verso sinistra colpendo l’incolpevole Mapelli che cappotta più volte in una sequenza che fa raggelare il sangue ai presenti. Chi sarà il prossimo?

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La via di fuga esterna al Radillon. Che Spa sia una pista per uomini veri non c’è dubbio. Sul fatto che un tratto come l’Eau Rouge – Radillon esalti gli uomini veri c’è ancora meno dubbio. Ma anche in questo caso si attende che qualcuno si faccia male seriamente. Quella via di fuga è troppo corta considerano la velocità di percorrenza, il disegno della curva e l’incognita pioggia sempre in agguato. E’ vero, dietro c’è un bosco con tanto di terrapieno e mettere in mettere in sicurezza quel tratto vorrebbe dire effettuare un terrazzamento e abbattere un po’ di alberi. Il buon senso suggerirebbe che il prezzo da pagare per intervenire non sia neppure troppo alto. Di incidenti in quel punto ne abbiamo visti molti. Nalio e Schothorst hanno distrutto due Renault Megane in quel punto, Joey Foster è andato a finire direttamente nel bosco con il suo prototipo WFR03 durante un test della Speed Series, Fabio Leimer ha spezzato in due una vettura solida come la Dallara utilizzata in GP2.

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I gentlemen-driver nelle corse endurance. Chiamateli pure “chicane mobili”. Trattasi di piloti amatori, dal piede leggero e il portafoglio pesante che si divertono a scartare giocattoli un po’ troppo costosi e soprattutto pericolosi. Le gare di durata sono sempre stato un terreno fertile per questo tipo di piloti, l’endurance deve a loro parte della propria fama e del proprio fascino. Ma spesso e volentieri rappresentano un pericolo. Piloti esperti come McNish e Rockenfeller hanno distrutto due nuovissime Audi R15 per evitare due vetture della classe GT-ProAm. Per non parlare dell’American Le Mans Series, categoria che calca soprattutto circuiti stretti e tortuosi, dove per vincere non basta essere più veloci ma bisogna avere i riflessi pronti per evitare chi procede lentamente. Perché non vietare l’iscrizione di questi piloti? Oggi esistono campionati come la Blancpain Endurance Series dove i gentlemen possono dare sfogo alla loro passione e il livello dei piloti in pista è più alla loro portata.

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Il roll-bar a lama. Lo scorso anno l’ha introdotto la Mercedes, adesso lo adottano Force India e Team Lotus. Negli anni siamo stati abituati a vederli cilindrici, ovali o triangolari, forme che trasmettono un certo senso di sicurezza. Ma un elemento importantissimo come il roll-bar, se assume una conformazione a sezione singola è davvero sicuro? Reggerebbe in caso di cappottamento? Anche in questo caso si attende un crash test reale per avere la conferma. Il dubbio resta e nessuno si attiva.

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1 commento su “L’Editoriale – I dubbi sulla sicurezza dopo le tragedie di Wheldon e Simoncelli”

  1. Sono d’accordo quasi su tutto: quasi. Per Le Mans il problema è stato semplificato. Almeno nel caso di McNish l’incidente non è attribuibile al doppiato. Ma alle case che stanno facendo diventare corse endurance lunghissime gare sprint

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